Scritti
Sembra una fotografia
Con questo breve scritto mi rivolgo a tutte le persone che si chiedono quale potrebbe essere un modo un po’ più approfondito per fruire di un’immagine, al fine di apprezzare al meglio il significato intrinseco e il valore di senso nel modo più appropriato.
A causa della necessità di sintesi che mi impone questo contesto non potrò approfondire troppo e addentrarmi nei dettagli della questione, quindi mi soffermerò brevemente su alcuni aspetti di ciò che mi compete un po’ di più, ovvero la pittura figurativa.
A volte, per mancanza di tempo o in assenza di un reale interesse verso le cose dell’arte (e non solo), risulta difficile o noioso soffermarsi a esaminare il senso di un’immagine in generale, di qualsiasi natura essa sia (pittorica, fotografica, filmica etc…).
Infatti, soprattutto nei social network, ma anche in occasione di eventi espositivi, non ho potuto fare a meno di notare che molte persone che hanno poca dimestichezza con le cose dell’arte (ma a volte anche chi è pratico di queste cose), nel momento in cui esprimono un giudizio verso un’immagine pittorica figurativa particolarmente naturalistica, si soffermano su un aspetto a parer mio molto contraddittorio, ovvero: l’associazione immediata tra il dipinto e la fotografia. Il giudizio di solito viene sbrigativamente espresso a fin di bene: l’esclamazione “sembra una fotografia” infatti è il classico giudizio che il fruitore medio esprime allo scopo di fare un complimento al pittore, spesso senza conoscere la reale motivazione che ha spinto l’artista a realizzare un’immagine di quel genere e, sempre più frequentemente, confondendo i mezzi con i fini.
Ed è a questi ultimi che mi rivolgo ponendo alcune domande che forse potrebbero risultare utili a una più accurata comprensione delle immagini che ci si presentano davanti: Cosa significa esattamente guardare un dipinto? A cosa si riferisce quell’oggetto che chiamiamo quadro?
Un punto di partenza utile per evitare fraintendimenti o approcci un po’ troppo superficiali nel momento in cui si fruisce di un’immagine (qualsiasi immagine) potrebbe essere proprio la domanda: a cosa si riferisce un’immagine? Quindi: qual è il referente dell’immagine? O ancora meglio: qual è il rapporto tra il referente e l’oggetto materiale a cui rimanda?
Il referente è ciò a cui l’immagine si riferisce. Quando percepiamo dei segni, la cosa più immediata che concepiamo è il referente a cui quei segni fanno riferimento.
Partiamo da tre esempi, non tanto per chiarire delle contraddizioni in modo definitivo, ma per offrire degli spunti di riflessione utili ad una fruizione più densa e ricca di senso.
- In un’immagine fotografica il referente solitamente è l’oggetto fotografato. La superficie della fotografia è materialmente invariata nello spessore e nella variazione dei segni. Oggi consumiamo continuamente immagini fotografiche non stampate e quando esprimiamo giudizi a riguardo, ci soffermiamo direttamente sul soggetto e quasi mai sui materiali che costituiscono l’immagine fotografica ( se è stampata, la carta e la sua grana; se non lo è, lo schermo luminoso o i pixel del computer o del cellulare che ne costituiscono il supporto). Potremmo dire che il referente è un oggetto diverso dai materiali che ne costituiscono il supporto.
- In una pittura astratta (o sarebbe meglio dire “concreta”, nel senso che ciò che viene rappresentato viene creato di sana pianta e non a partire o con l’intento di rappresentare un soggetto reale) il referente è la pittura stessa e l’insieme degli elementi che la costituiscono: oltre alle forme e ai colori anche i mezzi che ne costituiscono la materia e il supporto presi di per se stessi. Ma potremmo dire anche, analogamente alla musica, il timbro o il tocco che danno un determinato carattere alle forme rappresentate. Questo non proprio in tutti i casi ovviamente: in molte situazioni però questo fatto viene accentuato con particolare enfasi. In questo caso l’immagine pittorica può dirsi “autoreferenziale”, in quanto il referente e il supporto materiale dell’immagine coincidono.
- L’immagine pittorica figurativa possiede elementi che la accomunano sia alla fotografia che alla pittura astratta, ovvero: il referente è il soggetto rappresentato, ma l’insieme dei mezzi (linee, forme, colori) e dei materiali (materia pittorica, supporto, etc…) si “sovrappongono” al referente, così da essere percepiti nello stesso istante come un’unica cosa. Il valore dell’immagine risulta dalla sovrapposizione del referente (oggetto rappresentato) e del supporto (immagine dipinta con determinati materiali diversi da quelli che costituiscono l’oggetto-referente). Ciò accade sia in una pittura in cui il referente è ben comprensibile (naturalismo), sia in una pittura nella quale il riconoscimento del referente è meno immediato (cubismo, espressionismo, etc..). Anche nella fotografia accade qualcosa di simile: in fin dei conti anche l’immagine fotografica (che può anche rappresentare qualcosa di irriconoscibile) è costituita da segni. E da questo punto di vista è chiaro che non c’è molta differenza tra un dipinto foto-realistico e una fotografia. Ma tenendo in considerazione un arco stilistico immaginario che va da un estremo all’altro, da una pittura figurativa non-naturalistica a una iper-naturalistica, le possibilità di apprezzare le variazioni formali sono praticamente infinite. Forse in un dipinto “fotografico” ci si potrebbe concentrare anche sui suoi elementi meno fotografici, sulla pittoricità di alcuni di questi. O semplicemente quando questo non è proprio possibile, si potrebbe provare ad andare “oltre” l’immagine, esattamente come si fa con una fotografia, trattenendosi per un attimo dall’affermare “sembra una fotografia!”, quasi che la correttezza della somiglianza con qualcos’altro da sé ne confermasse la bellezza. Infatti, a volte il naturalismo o gli effetti più o meno fotografici possono essere soltanto un mezzo per rendere più comprensibili i soggetti rappresentati, arricchendo, modificando e ricostruendo l’immagine con la materia pittorica, anch’essa veicolo di significati inerenti il soggetto rappresentato.
Proprio da quest’ultimo punto bisognerebbe partire: applicare un adeguato criterio di giudizio nel giusto ambito, sforzandosi di indagare “l’oltre” della rappresentazione, al fine di mettere in moto il ragionamento, approfondire le implicazioni che ne possono scaturire, arricchire la propria visione delle cose e la propria esistenza, evitando di sottovalutare il potenziale valore delle immagini pittoriche riducendole a mere decorazioni o manufatti frutto di virtuosismo. Insomma, per quanto possibile, vivere a pieno, per mezzo dell’immaginazione, la potenza delle forme che costituiscono il mondo che appare da quella finestra chiamata quadro.
La mia pittura
“…vivo con intensità soltanto le sensazioni minime, e relative a cose piccolissime. Credo che ciò avvenga a causa del mio amore per la futilità, oppure per la mia scrupolosa attenzione ai dettagli. O piuttosto (non saprei dirlo, non verifico mai questo tipo di cose) ciò dipende dal fatto che le cose minime, non avendo assolutamente nessuna importanza sociale o pratica, hanno, proprio per questa assenza, una totale indipendenza da entità contaminate dalla realtà. Per me le cose minime sanno di irrealtà. L’inutile è bello perché è meno reale dell’utile, che continua e si prolunga; mentre il meraviglioso futile, il glorioso infinitesimale rimane dove è, non è altro che quello che è, vive libero e indipendente. L’inutile e il futile aprono nella nostra vita reale intervalli di umile staticità.”
“Il libro dell’inquietudine” Fernando Pessoa
Fin ora, meglio di Pessoa, non ho trovato nessuno che con questa chiarezza e lucidità potesse permettermi di interpretare il mio lavoro. Ho trovato le parole per dire l’indicibile per mezzo di un uomo che ha vissuto cent’anni prima di me, e che non è mai entrato in contatto con la mia produzione pittorica. Credo di poter affermare di non aver mai considerato fino ad ora la possibilità di intraprendere seriamente una qualche “ricerca artistica”. Non cerco nulla. Non ho un progetto. Ho solo ipotesi che non potranno mai essere contraddette o confermate. Non posso dimostrare, posso solo mostrare. Gli oggetti in quanto eventi mi capitano sotto gli occhi. Credo davvero che l’oggetto della mia pittura, o forse più precisamente il movente, sia la “distrazione”, e non tanto gli oggetti o le figure contenute nei miei dipinti. I miei soggetti sono il frutto della mia sbadata distrazione quotidiana. Utilizzo la pittura perché la vita mi ha portato alla pittura. La pittura mi è capitata. Anche io, come i miei angoli, i miei pavimenti, sono accaduto. Le cose che facciamo durante la nostra esistenza hanno una serie di infinite cause a ritroso totalmente inesplicabili, esattamente come ciò che tento di rappresentare fermandolo e ingessandolo nella sua “umile staticità” illusoria in un calco di pittura ad olio. Le situazioni, all’interno delle quali mi ritrovo a dipingere le cose, accadono, avvengono. Le cose agiscono in me mentre io mi limito a contemplarle. L’unica azione che compio, senza intervenire sull’oggetto, è l’atto di dipingerlo. Mi rassegno felicemente di fronte la perfezione rudimentale della pittura, per mezzo della quale ricostruisco l’oggetto tentando di fissarne l’idea necessariamente sbagliata senza pormi troppe domande. Questa è la mia metafisica. La mia anacronistica superstizione. Il “mito” della ricerca nell’arte non mi riguarda perché implica una certa fede nella libertà, nella volontà. Ma soprattutto implica un fine a cui tendere e in cui credere, e un inizio, ovvero un’idea dalla quale partire. Non posso avere un’idea corretta delle cose che mi si presentano inaspettatamente. La nostra idea delle cose si pone su un altro piano rispetto alla realtà, quella realtà che abbiamo ancora bisogno di pensare fuori dalla coscienza. Ci sarebbero troppe possibilità di interpretazione per prendere una decisione e agire. Lo scetticismo me lo impedisce e mi porta ormai inconsciamente a visualizzare nella maggior parte dei casi solo parziali dettagli di oggetti, e quando questo non accade è a causa del mio tentativo di contestualizzare più chiaramente le cose dipinte al fine che risultino più comprensibili. È quasi come se non volessi o riuscissi a vedere l’”intero”. Da qui forse il mio rifiuto o la mia incapacità di concepire l’integrità. E di conseguenza la mia difficoltà a farmi un’idea del mondo, di pensare una sintesi coerente, nel giudicare e nel dare un qualche senso che possa accomunare le cose. Ma, nonostante questo, sento concretamente la presenza del “meraviglioso futile” e del “glorioso infinitesimale”. E lo sento ogni giorno nelle cose che mi circondano. Dipingere è l’unico modo che conosco per potermi illudere di aver creato il mondo che mi circonda.
Astrazione, figurazione, naturalismo e degenerazioni.
Contraddizioni programmatiche e di criterio di giudizio.
ASTRAZIONE
Il termine astrazione deriva dal latino abstractio che a sua volta viene dal greco αφαίρεσις (aphàiresis). In senso generico l’astrazione è il procedimento del pensiero per il quale si isola un elemento da quelli a cui era connesso e lo si considera come particolare oggetto di ricerca.
Considerando accettabile questa definizione si potrebbe affermare che il procedimento astrattivo implica un approccio analitico verso il reale, in quanto il soggetto seleziona e isola determinati aspetti della realtà fenomenica e oggettuale. Credo che questa esplicazione possa essere accettata e applicata anche nella pratica artistica e, nel caso che ci riguarda più da vicino, nella pittura cosiddetta figurativa.
Ogni frammento di mondo, nel momento in cui viene selezionato e comunicato, implica a sua volta un’idea nella quale viene categorizzato. In sostanza è possibile avere un approccio analitico al reale in cui ogni porzione selezionata viene delimitata e isolata dal resto per essere compresa e considerata come mondo a sé stante e di conseguenza concepire una sintesi di quella porzione.
Nella nostra vita quotidiana però il buon senso ci porta ad avere un primo e immediato approccio sintetico verso le cose del mondo. Ad esempio: vediamo istantaneamente una bottiglia e la riconosciamo come tale, sottoponendola in seguito ad una eventuale analisi più approfondita. Ma prima di riconoscerla istantaneamente, senza che ce ne rendiamo conto, il nostro cervello analizza in minuscole frazioni di secondo gli elementi che la compongono al fine di ricostruirne l’idea nella nostra mente per mezzo di associazioni e con l’aiuto della memoria.
Ogni tecnica e procedimento artistico, a partire dell’ideazione e durante l’esecuzione, può realizzare un’interpretazione soggettiva necessariamente di uno o più aspetti definiti della realtà.
Gli artisti, più o meno consapevolmente, è come se percepissero una certa insufficienza della realtà fenomenica. E questa necessità di trascendere le cose, che può assumere spesso dei tratti angoscianti, può manifestarsi in diversi modi.
La realtà necessita quindi di essere continuamente inventata e immaginata dal pensiero a causa di questa angosciante insufficienza delle singole parti che la compongono, e proprio perché essa viene continuamente rappresentata e restituita per mezzo del linguaggio soltanto in minuscole e quasi insignificanti porzioni..
FIGURAZIONE
Da queste brevi premesse generali credo sia possibile affermare che nella pittura la figurazione non consiste in altro se non nella descrizione, per mezzo di figure, di situazioni reali o ipotetiche sempre mediante una “invenzione” di forme che definiscono oggetti. Questi ultimi rappresentati all’interno di una narrazione in immagini possono alludere ad una qualche idea più generale e sintetica per mezzo di simboli. La pittura figurativa rappresenta la realtà astraendone gli oggetti e selezionando parti del mondo ben delimitate concettualmente e fisicamente. Il particolare carattere dei segni che si utilizzano per creare le forme con le quali definire gli oggetti rappresentati ha una natura forse solo in parte convenzionale, alla quale diamo un significato al fine di orientarci nel labirinto della forme che costituiscono le cose. Una linea retta e nitida, in quanto ente geometrico, può essere carica di significati tratti da una sintesi visiva di un particolare aspetto di un dato naturale, ad esempio l’orizzontalità o la verticalità (l’orizzonte del mare o la verticalità degli alberi e delle piante, o la stessa stazione eretta degli esseri umani). Una linea tremolante o una macchia potrebbero derivare da una maggiore consapevolezza visiva di tutto ciò che sfugge ad un’eccessiva semplificazione geometrica, rappresentando per similitudine un aspetto dell’apparenza organica degli elementi naturali. Alle forme e ai segni della pittura attribuiamo quasi sempre significati che alludono all’infinità delle forme della natura visibile e per mezzo di analogie ne deduciamo le somiglianze.
NATURALISMO
La rappresentazione pittorica di oggetti reali avviene sempre per mezzo dell’invenzione come riproduzione necessariamente imperfetta rispetto al modello di riferimento, in quanto la copia esatta di qualcosa risulta essere semplicemente insostenibile dato che ogni oggetto è sempre e comunque differente. L’intento “programmatico”, potremmo dire ideologico, di riprodurre o copiare la realtà appare più come un’ingenuità e una rincorsa senza fine del vero o come un diletto e un’ostentazione performativa di una capacità acquisita per mezzo di convenzioni linguistiche, teoriche e tecniche accettate dai più come presupposti essenziali di valore.
É vero che c’è chi si avvicina e chi si allontana dalla riproduzione dell’apparenza delle cose, ma il punto è la vera motivazione che spinge a farlo. Pensare di far sembrare reali gli oggetti con la pittura per mezzo del naturalismo (e fare di ciò lo scopo della ricerca artistica) è una pretesa infantile carica di residui di comportamenti ancestrali e primitivi caratterizzati psicologicamente dalla forte attrazione per tutto ciò che sembra vero e che non lo è. In questo caso, il pittore e il fruitore di questo genere di immagini si pongono sullo stesso piano. Il primo sa che il secondo rimarrà stupefatto dell’illusione del vero nell’immagine dipinta, il secondo si sarà compiaciuto del virtuosismo fine a se stesso del primo. Infatti, solitamente, la prima reazione del fruitore superficiale e sprovveduto è quasi sempre di meraviglia di fronte ad un oggetto dipinto che sembra vero, quindi che sembra un altro da sé ma che in qualche modo è pur sempre esso stesso. E ciò accade quasi esclusivamente nell’ambito delle arti tradizionali della pittura e della scultura. Il motivo? Molto semplice: la realizzazione manuale. Qual è il criterio di giudizio che porta a questo genere di approccio? Il criterio in questione non è sbagliato in sé, ma non viene utilizzato nel giusto ambito: ovvero il criterio di giudizio scientifico, per somiglianza e comparazione. Ci deve essere sempre qualcosa con il quale paragonare l’oggetto prodotto (il quadro) o la rappresentazione dentro questo oggetto (il soggetto raffigurato). Infatti si può assistere di frequente alle classiche esclamazioni di coinvolgimento quali: “È somigliante!” come nel caso di un ritratto dipinto, o peggio “Sembra una fotografia!”. Tutte esclamazioni di entusiasmo allo scopo di fare un complimento al pittore (che quest’ultimo lo apprezzi o no non è molto importante). Se non si ha un termine di paragone col quale identificare l’imitazione dell’oggetto in questione si è quasi totalmente incapaci di giudicare. Pare che sia necessario avere un riferimento chiaro per poter dire se l’imitazione dell’oggetto è giusta o sbagliata. Nell’ambito artistico appare strano se non inutile chiedersi qual è il modello di riferimento per poter valutare l’imitazione. Forse sarebbe più opportuno contrapporre, anche se non in maniera troppo limitante, al cosiddetto giudizio scientifico (inteso psicologicamente come approccio) quello poetico ( estetico ed emotivo, con il quale non si compara ma si prende atto). Quindi che fare? Sospendere il giudizio? In un certo senso sì, almeno dal punto di vista tecnico-esecutivo: quando si guarda un film, di sicuro non ci si sofferma sull’imitazione, infatti nei casi in cui ci si sofferma sulla resa naturalistica di solito ci troviamo di fronte a film ricchi di effetti speciali finalizzati a rendere reali situazioni irreali (ed è proprio questa situazione di irrealtà che ci fa notare l’effetto naturalistico, effetto che non noteremmo in un film che racconta e rappresenta scene plausibili). Il naturalismo dovrebbe essere il mezzo per raccontare o alludere, non il fine ultimo da contemplare.
Il giudizio di comparazione di una pittura rispetto all’oggetto fotografia (e dato il tempo in cui viviamo neanche più l’oggetto fotografia, ma in generale la resa fotografica) di solito viene applicato, spesso inconsapevolmente, anche nel momento in cui si giudica un dipinto per così dire convenzionale, paragonandone gli esiti a un genere affine del passato. Infatti giudichiamo una pittura naturalistica non solo rispetto alla fotografia (fatto inevitabile) ma anche rispetto a una pittura affine del passato. E ciò accade soprattutto nell’ambito della pittura classico-accademica revivalistica di stampo ottocentesco.
DEGENERAZIONI.
L’ACCADEMISMO REVIVALISTICO CONTEMPORANEO E IL PROCESSO PITTORICO PERFORMANTE
La bellezza diventa così “correttezza”, non rispetto a un ideale, ma rispetto alla somiglianza col suo modello reale o artistico: “è bello perché somiglia” (a una foto o a un dipinto antico) anche se in realtà magari non è bello per questo ma solo perché “si è arrivati ad un determinato scopo mediante un determinato procedimento manuale (allora qualsiasi fotografia scattata sarebbe bella perché corretta dal punto di vista ottico, ma non è così per il senso comune; o qualsiasi dipinto revivalistico di maniera sarebbe bello perché riproduce gli effetti di un determinato stile)”. La pittura accademica revivalistica di stampo ottocentesco può essere presa come esempio al fine di chiarirne l’anti-artisticità peculiare. Infatti questo nuovo genere contemporaneo, che si è ritagliato una buona fetta di mercato in una nicchia alto-borghese nostalgica, dagli effetti collaterali dai tratti estremamente pop e tipici della mid-cult verso la massa di dilettanti e cultori d’arte, sembra consistere più in una pratica sportiva anziché artistica. Il pittore neo-vittoriano infatti, come un vero e proprio atleta, accetta le regole del gioco: regole ovviamente già date e provenienti dall’esterno e che una volta rispettate per filo e per segno portano ad un risultato che “deve” essere prevedibile per lui e per chi lo giudica. La conformità ad uno stile storicizzato, caratterizzato da un forte e comprensibile naturalismo che permette di ostentare tutto il virtuosismo necessario ad ottenere il risultato “oggettivo”, permette infatti di utilizzare un doppio criterio di giudizio perfettamente inoppugnabile rispetto agli scopi prefissati a priori: l’opera somiglia a un quadro antico “fatto bene”, il soggetto è perfettamente “riconoscibile” in quanto lo scopo è il naturalismo della rappresentazione e, come se non bastasse, questi due risultati si ottengono rispettando ogni passaggio del procedimento tecnico dato a priori dalle regole del gioco. Ovviamente è assolutamente necessario ostentare il procedimento per arrivare a questo scopo: la ripresa video accelerata con conseguente pubblicazione sui social network è l’elemento portante dell’intera pratica. Ciò a dimostrare che lo scopo è proprio il processo per arrivare a quel risultato sicuramente incontrovertibile e accettato da tutti come canone. Da qui la contraddizione programmatica del “dipingere una certa idea di pittura”, e non una certa idea del mondo o delle cose.
Tutto questo credo sia riconducibile alla diffusa mancanza di capacità contemplativa. La mancanza di contemplazione è dovuta alla mancanza di volontà di sforzo immaginativo da parte del fruitore, e assecondato in questo dai pittori ingenui o in mala fede. Come qualsiasi altra disciplina oggi, la pittura ha carattere performativo e la ripresa video dell’esecuzione ne è la dimostrazione: è il processo che conta, è quello ciò a cui si vuole assistere. Il fine oggettuale che è già dato (il dipinto fatto prevedibilmente in un certo modo) si sovrappone al fine processuale nel suo svolgersi (l’ostentazione della procedura al fine di ottenere quel risultato). Insomma la fruizione estetica del processo artistico spettacolarizzato che colma il vuoto del fruitore mediante l’intrattenimento. L’immagine, l’oggetto, non significano più nulla se non in quanto fini da realizzarsi come pretesto per ostentare il processo.
Perché dipingere
“Perché tu chiedi perché? Non appartengo a coloro cui si possano chiedere i loro perché.
La mia esperienza è forse di ieri? È un pezzo che ho fatto le esperienze che hanno determinato le mie opinioni.
Non dovrei essere una botte di memoria se volessi portar sempre con me le mie ragioni?”
Proprio come Zarathustra ha fatto con il suo discepolo che gli chiedeva il motivo per il quale i poeti mentissero troppo, un pittore potrebbe inizialmente rispondere allo stesso modo alla domanda di carattere esistenziale e storico del titolo di questo post. Esattamente come tutte le persone che fanno qualcosa con determinati mezzi, il pittore dipinge le sue immagini senza di solito chiedersi il perché lo fa. Se gli capita di chiederselo, spesso è a causa del fatto che dal mondo esterno qualcuno ha posto la domanda formulandola in due modi molto simili nella forma, ma differenti nella sostanza:
“Perché dipingi?”
oppure:
“Perché dipingere?”
Come si può notare infatti la prima domanda sembrerebbe avere un carattere più intimo, personale, potremmo dire “esistenziale”, in quanto riguarda di più le motivazioni legate ad una pratica parzialmente sconnessa dal mondo e dalle eventuali responsabilità verso di esso. Sembra quasi che sia implicito nella domanda un senso per così dire più “lirico” e soggettivo, che riguarda l’irripetibilità e l’unicità di tutto ciò che appartiene al pittore a cui la domanda viene posta.
La seconda domanda invece ha un carattere decisamente più impersonale. In essa è contenuta la pretesa del senso storico della pratica in questione, del significato e della direzione che assume nell’ambito della ricerca nel mondo dell’arte e molto spesso (soprattutto di questi tempi) dell’utilità effettiva per il mondo in senso più generico. La pittura in questo caso viene percepita rispettivamente dai sostenitori e dai detrattori quasi come un linguaggio adeguato o inadeguato alla sensibilità odierna, capace o incapace di comunicare efficacemente determinati valori condivisi, quindi storici, e in quanto mezzo espressivo dotata di senso “epico” e oggettivo.
Di solito risulta molto difficile risalire alle cause che ci portano a praticare determinate attività che svolgiamo quasi per vocazione o per intima necessità, e spesso pur di giustificare agli altri ciò che facciamo (in qualsiasi ambito della vita e del lavoro) tentiamo di dare un senso esterno e comunicabile al fine di oggettivare le motivazioni, spesso a noi sconosciute, che ci spingono a svolgere determinate attività per noi di immenso valore.
Credo che la prima domanda “Perché dipingi?” sia meno problematica della seconda “Perché dipingere?”, e può essere liquidata più o meno come avrebbe fatto il nostro Zarathustra, in quanto effettivamente non è possibile giustificare tutto ciò che ci riguarda nell’intimo dato che le nostre ragioni e opinioni si sono gradualmente plasmate nell’arco della nostra vita senza che ce ne rendessimo conto, e non come se da un momento all’altro avessimo deciso fermamente di fare una cosa anziché un’altra. La nostra esistenza ci porta a intraprendere scelte senza che necessariamente abbiano delle ragioni logicamente e pragmaticamente definite.
Alla seconda domanda un pittore potrebbe rispondere solo partendo dai presupposti della prima, perché non è possibile pensare il mondo e la storia come qualcosa di indipendente dalla propria esistenza, quest’ultima necessariamente intrisa e condizionata da tutto ciò che ci circonda. Però credo che la risposta non possa risolvere del tutto la pretesa di assoluta oggettività, e per un semplice motivo: il senso storico, oggettivo, impersonale di ciò che si fa, molto spesso lo diamo a posteriori rispetto a ciò che facciamo perché abbiamo la necessità di ottenere un “riconoscimento” pubblico o sociale e di sentirci utili a qualcosa. Ma spesso, da parte di chi pone la domanda il problema del contenuto e delle implicazioni dell’arte e della pittura purtroppo sono solo secondarie, perché il giudizio è inerente quasi solo ed esclusivamente al mezzo che si utilizza, diventato ormai linguaggio inserito nell’ambito della ricerca artistica o il cui valore dipende fortemente dalla continuità o discontinuità con “ciò che c’era prima”, se non addirittura dall’adeguatezza estetica al mondo a noi contemporaneo.
Il punto è questo: chiedere a un pittore “Perché dipingere?” forse non dovrebbe riguardare esclusivamente i “mezzi” o il “linguaggio” della pittura come spesso oggi accade, soprattutto tra gli addetti ai lavori e anche con un certo grado di faziosa malizia. Gli artisti spesso si sentono minacciati gli uni dagli altri per motivi esclusivamente ideologici. L’ideologia infatti limita la comprensione del mondo facendocelo vedere spesso solo per come vorremmo che fosse, nel bene e nel male, e in un determinato ambito ci fa giudicare ciò che è diverso da ciò che noi facciamo come una minaccia al mantenimento del nostro stato attuale o alla possibilità che il nostro avvenire possa essere migliore. Nel mondo dell’arte questo atteggiamento è molto diffuso e spesso troviamo artisti che realizzano opere più per andare contro qualcosa, per distruggere più che per costruire, inventandosi un nemico immaginario per poter giustificare le proprie azioni. Questo è l’atteggiamento tipico sia dell’avanguardia che del conservatorismo. Gran parte del senso delle cose dell’arte e dei suoi vari linguaggi dipende molto dal significato che viene attribuito da chi pone la domanda e dall’ideologia con la quale si arrivano a interpretare i vari fenomeni artistici.
Quando ci troviamo davanti a un quadro chiedendoci “Perché dipingere?” dovremmo accogliere “l’esistenza” del pittore e le sue inesplicabili motivazioni ragionando sul fatto che magari utilizza i mezzi della pittura perché semplicemente sono i più adeguati a rendere l’idea che vuole dare. Già nei mezzi e nei materiali che abbiamo a disposizione è contenuto un fine in potenza. L’oggetto immaginato, una volta realizzato conserverà qualcosa di riconoscibile e di caratteristico della materia originaria di cui è costituito e sarà segnato dalla traccia unica e irripetibile lasciata dagli strumenti che lo hanno plasmato. E questo vale per tutte le forme d’arte esistenti. Sperimentando e facendo esperienza di materiali e strumenti, qualsiasi essi siano, e acquisendo la dovuta conoscenza di questi, i mezzi diventano parte integrante del nostro pensiero e ci permettono di concepire e comunicare il mondo con la loro propria specificità semantica.
L’innovatore e il conservatore che si concentrano esclusivamente sui mezzi potrebbero godere di una fruizione più piena e ricca di senso se pensassero per un momento non a come le cose dovrebbero essere, ma come effettivamente si presentano in quanto fenomeni da analizzare per scoprire se effettivamente, proprio in tutti casi, si cela un pericolo latente che mette a rischio la loro stessa sopravvivenza. Andare incontro e non andare contro, continuando a fare ciò che si fa senza necessariamente sminuire il lavoro e “l’esistenza” altrui.
Facile a dirsi, ma difficilissimo a farsi.